Il Percorso di Franca Maranò
Francesco Venturoli, 1964
Nel breve e trepido cammino pittorico di Franca Maria Marano, da Bari, alla sua prima mostra personale, si possono individuare tre momenti non contradditori, anzi l'uno in funzione dell'altro, in uno sviluppo che esprime, in forme sempre più consapevoli, la medesima idea pittorica, ii medesimo rapporto fra il mondo esterno ed immaginazione, fra natura e interiorità.
II primo di questi momenti è rappresentato da quei quadri, tutti di taglio medio e piccolo, in cui paesaggi e nature morte sembrano prender forma per macchie e segni ( ombre e luci) affioranti dai fondi « sensibili » delle tele, come apparizioni luministiche. Sono figure geometriche non ancora ben individuate dentro lo spazio, che prendono corpo in un fare largo e morbido, su un tessuto che ritiene lo strato senza che questo si densifichi negli smalti o in una superficie vetrina. In queste visioni accennate, per toppe di luce, per semicerchi di segni, la grafia non scrive mai l'immagine, non la serra in un organismo appieno svelato, ma rimane in una sorta di affettuoso favolistico compromesso con la macchia: la composizione, in taluni di questi primi cimenti astratti dell'artista, ora si organizza nel suo insieme, poi resta una serie di notazioni e di intuizioni astratte, come solfeggi per una definizione « mentale » dentro una ribalta sensibile.
II secondo gruppo di opere - eseguito dalla Marano in un periodo successivo - si distingue dal primo per una maggiore astrazione del sensibile: quel tal gusto impressionista astratto che a mano a mano ha avvertito nei suoi echi periferici anche l'Italia del Sud, cede il posto ad un fare più asciutto, dove è presente la lezione di Magnelli, sia per tavolozza che per immaginazione. Composizioni elementari, che si articolano in contorni e campiture quasi senza soluzione di continuità fra vuoti e pieni, tra spazio e oggetti. In questo secondo gruppo di quadri – che è più fisionomico del primo - l'artista presenta nella sua pittura due nuove caratteristiche: il segno si fa più scritto, ma non per questo perde la sua originaria trepidazione e se incide e scalfisce come un graffito, ciò fa non “ore rotundo” ma per continui accenni ed accarezzamenti di un percorso, come di una mano che tracci, affettuosa e familiare, una sagoma, un itinerario; le campiture, invece, che nella fase precedente affioravano come ombre o macchie, si spessiscono e si solidificano in paste compatte, le cui cromie richiamano -, per certe intonazioni sul mattone, il giallo di Napoli e l'ardesia -, il colore combusto della ceramica o la materia della terra cotta. Le terre rosse sono infatti prevalenti in diversi quadri di questo periodo, fino alla monocromia, come un refrain.
L'artista, avvalendosi di queste grafie molto incise e affidandosi al suo « sen so del cotto », riesce a conservare la memoria di paesaggi e oggetti in una misura talvolta suggestiva, sottilmente arcaica, « antica », e scopre immagini di natura come anagrammi o blasoni. In questi dipinti il colore è più denso e rilevato, anche se la spatola lo schiaccia e lo unidimensiona, assumendo sonorità e splendore dimessi di vecchi avori, come in quell'emblema di paesaggio, tra le opere più felici della mostra, intitolato « Emozione chiusa ».
Terzo gruppo di lavori dell'artista è quello dei « rilievi », realizzati, sia con « paste alte » di tubetto, sia adoperando la ceramica come pasta alta di pittura: per il suo interno arcaismo, per la sua vivezza manuale, questa terza fase di sviluppo dell'arte della Maranò, non deve essere considerata un nobile esperimento artigiano, o almeno quello soltanto, ma il punto finale di una prima appassionata esperienza astratta. Questa fase dei « rilievi » già si enuclea nel semplice e felice quadro “Immagine in terra cotta N.I.”, fino a vere e proprie ceramiche, incorniciate come quadri di cavalletto; e a buon diritto: perché hanno una vis pittorica preminente, anche se i loro valori tattili sono più accentuati rispetto ad una pittura ad olio su tela. In quest'ordine sono da collocare opere come “Paesaggio ( rilievo)” e quel poetico e sorridente “Emblema di città” che nella sua quadrata connessione di parti esprime l'unità della cosa dipinta, da una memoria di cose viste e di vissuti itinerari.